Con la microcriminalità i giudici sono generalmente implacabili. Quando vengono presi i ladri di strada, in carcere ci vanno per davvero.
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I colletti bianchi, invece, seppur responsabili di gravi delitti, per un gioco di attenuanti generiche, continuazione, sospensione condizionale della pena, periodici provvedimenti di clemenza, lungaggini processuali, con conseguente prescrizione, in carcere non ci vanno. Non è colpa solo dei magistrati. Sono le leggi che essi devono applicare a essere improntate a una scala di valori distorta, che porta a infierire sui più deboli. Il codice penale risale al 1930, è lo stesso che c’era sotto il fascismo. Nel corso degli anni ha subito considerevoli modifiche, che però non hanno affatto riequilibrato, semmai acuito, le disparità di trattamento fra le classi sociali. A essere perseguiti con particolare rigore sono i reati ‘di strada’, che attentano alla proprietà privata: furti, scippi, rapine. Ma anche altre classiche condotte dei poveri, come raccogliere rottami ferrosi abbandonati, impossessarsi di rifiuti o mendicare insieme ai propri figlioletti, costituiscono reato. Poi ci sono i poveri d’oltremare, gli immigrati irregolari accusati di portare via il lavoro agli italiani, nei confronti dei quali si è predisposta una severa repressione. Gli illeciti commessi da ricchi e potenti invece sono guardati e trattati con indulgenza: per le violazioni societarie, bancarie e tributarie, che distruggono l’economia, sono previste maglie larghe; l’inquinamento di quei beni – aria, acqua, suolo – che sono patrimonio comune è punito perlopiù a titolo di semplice contravvenzione; le malattie professionali e le morti da infortunio sul lavoro comportano condanne relativamente contenute. In ogni caso, anche quando le pene sono elevate, il meccanismo processuale fa sì che si arrivi per questi reati quasi sempre alla prescrizione.